Questi i due articoli di cui parlavo:
Aeroporti in guerra con il governo Senza tariffe investimenti bloccati
Il silenzio del ministro Matteoli, la settimana scorsa a Milano, al convengo degli aeroporti europei, a detta degli esperti presenti è stato più esplicito di tante parole: grande imbarazzo perché, dopo una raffica di annunci, nei fatti non si mette in moto niente. Non decolla il piano nazionale degli aeroporti. Non si scioglie il nodo della regolazione tra Linate e Malpensa; non si sa nulla delle sorti del nuovo scalo di Viterbo. Non si sa chi metterà i soldi per Grazzanise, che dovrebbe prendere il posto di Napoli Capodichino. Tutto è fermo, come le flotte di aerei parcheggiati nel deserto dopo gli attentati terroristici alle Twin Towers. In particolare ferme sono le tariffe per i passeggeri, i cosiddetti corrispettivi che le compagnie aeree pagano per i passeggeri, e che includono una serie di voci, dai diritti di imbarco ai controlli di sicurezza. Tariffe che le compagnie aeree scaricano sul biglietto. Per questo a fine anno, quando in finanziaria era stata inserita una norma che dava il via a un adeguamento provvisorio delle tariffe da 1 a 3 euro, era esplosa la protesta delle associazioni dei consumatori e di Michael O’Leary, amministratore delegato di Ryanair, sempre pronto a far polemiche.
Ma il provvedimento è fermo al Cipe. E sul piede di guerra sono scese le società di gestione degli scali. «Siamo in trincea», tuona Enrico Marchi, presidente di Save, società di gestione degli scali di Venezia e Treviso, nonché vicepresidente Assaeroporti. Spiega Marchi: «Ci siamo dovuti difendere dalla crisi, dura, poi abbiamo avuto le polveri del vulcano islandese, e ora che soffia il vento della ripresa e potremmo riprendere a investire il quadro normativo incerto rende difficile ogni iniziativa. Fatta 100 la tariffa del 2000, quelle di Roma sono diminuite di quasi il 4% mentre a Parigi sono aumentate del 55%, a Londra Heathrow dell’86; all’estero crescono le tariffe e crescono le infrastrutture, si mette in moto un circolo virtuoso. Da noi è il contrario: a valori indicizzati le tariffe scendono, mentre aumentano i costi per le società di gestione. Basta un dato: l’aumento delle guardie di sicurezza per ogni archetto: erano 3, oggi sono 4, come dire che il costo del lavoro è aumentato del 30%».
Nel 2008, quando era ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, nel secondo governo Prodi, erano state approvate le Linee guida per i contratti di programma che ogni scalo doveva stipulare con l’Enac. Contratti entro i quali a fronte di investimenti e necessità documentate si potevano definire gli aumenti delle tariffe. Sono passati due anni e mezzo. Hanno concluso il contratto tre scali: NapoliCapodichino, Pisa e gli aeroporti di Puglia. Scali minori, ma in qualche caso anche fortemente motivati a chiudere presto la partita. A Napoli, l’azionista British Airport vuole vendere, per esempio, Pisa è quotata. La Puglia aveva le tariffe più basse d’Italia. Per il resto sono tutti fermi al palo. La norma in finanziaria doveva gettare un ponte tra questi accordi, più complessi e lunghi, e le necessità attuali di scali che in molti casi hanno già fatto fior di investimenti. Invece s’è inceppata. «Così sono fermi al palo 10 miliardi di euro di investimenti», incalza Marchi. Investimenti per ampliare gli scali, migliorare i servizi. Per far fronte alla crescita del traffico, che secondo le stime dovrebbe portare in Italia entro il 2030, 260 milioni di passeggeri, il doppio di oggi. Con ricadute incalcolabili anche sull’occupazione: «Ogni milione di passeggeri in più crea 1000 posti di lavoro», racconta Marchi.
«Il nostro programma di sviluppo, presentato lo scorso ottobre, vale 3,5 miliardi per i prossimi dieci anni, non possiamo prescindere dalla definizione delle nuove tariffe», protesta Franco Giudice, direttore generale Adr, società di gestione di Fiumicino e Ciampino che insieme alla Sea, società di gestione di Linate e Malpensa, vale il 50% di tutti i ricavi aeroportuali e su questo fronte le vede solide alleate. Spiega Giudice: «L’anticipo era stato deciso per far ripartire la macchina degli investimenti, ma a fronte di investimenti già realizzati. Noi continuiamo a investire, per esempio il nuovo sistema di smistamento dei bagagli, ma l’aumento non è mai arrivato».
Un problema non di poco conto. Il nuovo socio Changhi Airport era atterrato nella capitale pensando di esportare il modello di Singapore. Invece s’è trovato imbrigliato nella burocrazia italiana. Finché la situazione non si chiarisce, la società non può neanche quantificare esattamente quanto valgono le sue azioni e la redditività stimata. In ballo, a questo proposito, c’è anche un altro grosso problema. Il debito che Adr si trascina dai tempi della privatizzazione, avvenuta nel 1999 in un quadro regolatorio profondamente differente. A forza di ricorsi e controricorsi sembrava assicurata la possibilità di inserire all’interno dei costi giustificabili anche la leva finanziaria utilizzata per l’acquisto. Changi sta facendo grandi pressioni e quello delle tariffe per Adr è diventato un vero affare di Stato.
Dietro le quinte, a rallentare tutto, si intrecciano i soliti tira e molla per appianare problemi che il sistema aeroportuale italiano si trascina da almeno un decennio. E che gravano sui ritardi del Piano nazionale degli aeroporti, attorno al quale si intrecciano tutte le partite ancora aperte del settore.
Uno dei nodi è lo spostamento da NapoliCapodichino a Grazzanise, deciso perché Capodichino è troppo interno alla città, non ha spazi di crescita. Ma chi ci mette i soldi nel nuovo scalo? «Qualcosa dovrebbe arrivare dall’Ue, in parte da Regione e Stato per quanto riguarda l’accessibilità, ma del terminal deve farsi carico la società di gestione, Ba, British Airport, considerato che è stata definita come delocalizzazione, quindi non ci sarà una nuova gara», commenta Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi. Nel frattempo, però, con il contratto di programma tutta l’accessibilità di Capodichino è stata finanziata, a breve ci arriverà la metro, lo scalo è in grande fermento, gli hangar sono tutti pieni grazie anche al rilancio di Atitech. Insomma, tanto lavoro per nulla? Qualcuno, si dice, potrebbe ripensare alla soluzione originaria, proponendo un classica via di mezzo. Lo stesso problema si pone per Viterbo. Il nuovo scalo che dovrebbe rimpiazzare Ciampino, considerato a sua volta una delocalizzazione, è in carico ad Adr. Ma le compagnie low cost, Ryanair in testa, non vogliono spostarsi. E l’accessibilità di Viterbo, inesistente, comporta costi elevati e lunghi tempi di lavoro.
Il secondo non lo trovo...parlava della terza pista e delle proposte di alcune associazioni ambientaliste.PS:non sono un ambientalista sfegatato
