Il deserto - Da Urgench a Bukhara
Dopo un paio d'ore di viaggio, proprio al limitare del deserto, il nostro pullman rallenta e la guida ci spiega che ci stiamo avvicinando ad un curioso abbinamento ferrovia/strada, ma che il passaggio a livello è chiuso. Aggiunge anche che quando è chiuso significa che passerà un treno, ovviamente; ma non si sa mai se questo accadrà di lì a qualche minuto o anche dopo un'ora.
Parlo di curioso abbinamento perché si tratta di passare un ponte ferroviario il cui fondo è stato reso praticabile anche per le auto: in precedenza, infatti, si passava per il Tukmenistan, ma da quando la frontiera è stata chiusa il ponte (che scavalca il fiume Amu-Darya) è diventato l'unico passaggio transitabile. In attesa che se ne costruisca uno solo per le auto, quindi, si usa quello che c'è "in condominio" con i treni.
Visti i tempi incerti di attesa, scendiamo dal pullman sperando di non dover fermarci troppo a lungo. Ci va abbastanza bene, dopo una decina di minuti vediamo avvicinarsi il treno:


Subito dopo, tutti a bordo e si riparte. Costeggiamo per diversi chilometri un canale artificiale scavato nell'epoca sovietica; mi colpisce l'accostamento fra l'acqua e la riva desertica:

Arriviamo quindi ad un punto panoramico, ottimo per fare una sosta e sgranchirsi un po' le gambe. Si vede dall'alto il fiume Amu-Darya, che in quel punto segna il confine con il Turkmenistan.


Tira vento piuttosto forte, si sta benissimo. Sembra di essere immersi in un grande phon, ma è un'aria estremamente vivificante e rigenerante. Bellissima sensazione!
Ecco qualche altra immagine scattata in mezzo a questo paesaggio arido ma non inquietante: incrociamo pochi veicoli, ma ogni tanto si vede anche un accampamento con le yurte (tende rotonde dei nomadi dell'Asia centrale):


Questa barriera, che vedrò sempre uguale per decine di chilometri, costeggia la strada ed è fatta per evitare che la sabbia, che è come e peggio del ghiaccio quando si guida, invada la strada. Sembra strano che un argine così basso (saranno al massimo una ventina di centimetri) sia sufficiente a fermare il movimento delle masse sabbiose: ma tant'è, funziona egregiamente.


Noto un particolare, e penso agli amici del forum: la sigla della strada è A380!

Il deserto finisce, e ci avviciniamo a Bukhara. Il traffico è tutt'altro che intenso:


che pacchia, per noi che veniamo da Roma!

Arriviamo a Bukhara e andiamo subito a mangiare qualcosa, sono quasi le tre del pomeriggio. Non abbiamo molta fame, e io personalmente mi lancio su una cosa fresca e semplice, però...

Che c'è di strano, in una insalata di pomodori, cetrioli e cipolle? C'è che la verdura qui ha il sapore che noi conoscevamo forse trent'anni fa, se non di più. Sarà il sole, saranno i metodi di coltivazione ancora manuali e artigianali... insomma, mangiare questi pomodori è un gusto straordinario ed antico, e ce ne siamo fatti gran scorpacciate tutti quanti a tutti i pasti. In compenso, dopo il ritorno non ho avuto il coraggio di mangiarne per più di una settimana, per non rovinare il ricordo.
Andiamo in albergo, lasciamo le valigie e ci riposiamo qualche minuto, e poi si parte alla scoperta di
Bukhara
Arriviamo in una piazza dove ci sono, una di fronte all'altra (è una disposizione piuttosto frequente, qui) una moschea e una madrasa. Ma prima di parlare di questi due edifici, vi voglio mostrare una delle cose forse più stupefacenti che abbiamo visto, il Minareto Kalon:

E' una costruzione del 1127, all'epoca era l'edificio più alto dell'Asia centrale. E' alto 47 metri e ha fondamenta profonde 10 metri. Non c'è stato terremoto che l'abbia tirato giù, solido com'è. In quasi 900 anni non ha mai avuto bisogno di restauri di nessun genere, né statici né estetici, tranne quando fu parzialmente sfregiato da un bombardamento russo nel 1920. Nemmeno Gengis Khan, notoriamente non proprio tenerissimo in queste faccende, ebbe il coraggio di farlo buttare giù, per quanto rimase esterrefatto di fronte alla maestosità e alla solidità della costruzione.
Immaginate che nel XII secolo e nel seguito, questo gigante era come un faro per i carovanieri, oltre a poter fungere da torre di avvistamento durante le guerre; ingrandite la foto qui sopra, e spendete un momento per ammirare le 14 fasce decorative, diverse una dall'altra, nelle quali compaiono per la prima volta le maioliche blu che in seguito sarebbero diventate il motivo decorativo dominante nell'area.
"Kalon" in tagiko significa "grande" (e ora che ci penso, "kalòs" in greco significa bello...). E grande era la moschea che stava a fianco del minareto, ma fu distrutta da Gengis Khan. Nel XVI secolo fu ricostruita, sempre grande; oggi è la seconda in Uzbekistan come grandezza, e può ospitare 10.000 fedeli.
Questa è la facciata:



L'ingresso conduce in un grande piazzale circondato da portici, che viene completamente ricoperto di tappeti quando si celebrano riti cui partecipano molti fedeli, per consentire la preghiera.

Questo è l'arco monumentale che sovrasta il mihrab e il minbar, con davanti la fontana per le abluzioni rituali:


Particolare del mihrab, con il minbar accanto:


Dettaglio della parte interna della facciata:

Di fronte alla moschea c'è la madrasa Mir-i-Arab, fatta costruire nel XVI secolo da un principe yemenita. E' stata restaurata nel 1997, in occasione dei 2500 anni di Bukhara.

La madrasa è tuttora in funzione come scuola, e fu una delle poche ad esserlo anche durante il periodo sovietico (la moschea invece fu trasformata in magazzino). E' una scuola a cui si accede a partire dai 21 anni, e il ciclo di studio è di quattro anni. Si tratta di una sorta di facoltà universitaria di teologia; al termine gli studenti possono diventare insegnanti nelle scuole teologiche oppure predicatori nelle moschee. Teniamo comunque presente che i riti islamici non sono uguali dappertutto: ad esempio, in Uzbekistan le donne non entrano in moschea per pregare, in Turchia invece sì.


Per concludere il pomeriggio siamo andati in una fabbrica di tappeti. Già: Bukhara - per chi conosce il genere - richiama immediatamente un tipo di tappeti, abitualmente di lana, con fondo rosso o marrone e spesso con un motivo tipico chiamato "zampa di elefante". In realtà, ho scoperto che quei tappeti non vengono da questa città, ma sono invece originari del vicino Turkmenistan, anche se ormai li producono pure qui: ma sono stati chiamati "Bukhara" perché era qui che venivano convogliati per poi essere spediti altrove e commerciati. Siamo sulla Via della Seta: niente di strano che la storia si intrecci con il commercio, no?
La tradizione locale di Bukhara, invece, è quella dei tappeti di seta. La seta è un materiale molto importante per questo Paese, insieme con il cotone: non è un caso che dappertutto si vedano alberi di gelso. Anche se la fase produttiva finale ormai è spesso industrializzata, rimane il fatto che la produzione iniziale del materiale è sempre Madre Natura a permetterla: e quindi in molte famiglie si accetta di accogliere in casa ed allevare i bachi quando è la stagione, secondo procedure immutate da oltre 1600 anni. Quando è il tempo, questo significa mettere a disposizione dell'allevamento due o tre stanze di casa e procurarsi ogni giorno circa 300 chili di foglie di gelso fresche, i bachi sono assai affamati!
Al momento di fare il bozzolo, però, ognuno di loro produce la bellezza di circa un chilometro di filato, pur essendo lungo solo quattro centimetri

Quanto ai tappeti in seta, in fabbrica ne ho visto uno piccolino che m'è piaciuto molto, copia colorata di un motivo presente su una facciata di una madrasa locale:


E questo è qualche dettaglio della confezione:




I colori dei filati sono tutti vegetali; il tappeto appena iniziato sarà simile a quello mostrato prima, e per finirlo ci vorranno circa quattro mesi.
Eh, anche nel mondo di internet e dei contatti a tempo zero, l'artigianato mantiene il suo valore, il tempo rimane quello dell'uomo, non solo quello delle macchine... chissà se, intanto che scrivo, l'artigiana che sta creando il nuovo tappeto avrà già terminato la cornice arancione?